Certi ragazzi (la versione di A.)

Vorrei poterti dare quello che voglio dire. O starmene con una faccia da cerebroleso a guardarti, stare come l’albero a tenere il tuo appoggio, o essere due dita o una sigaretta, anche fumo. O mezzo prato, mezza foglia, mezzo nulla.
È estate. Sei a mezze maniche, una stupida posa da maledetto e suoni un motivetto adatto al silenzio. Ma è un’imitazione. Un evento di poca cosa che nemmeno tu sai di poterti evitare. Tu sei quello che diviene, quello che nemmeno sai di diventare. Sei una domanda che non risponde. Sei un orologio sospeso che non trascorre, sei atteso. Sei quello che batte qui, mi feliciti le ferite, teneri le mie dormite. Tu sei un grafico che s’impenna, che s’affanna a cardiovascolare tuo malgrado oltre le distanze e le ricorrenze. Sei imbarazzo di vivermi, sei questo assentarmi in un fatto solo mio, tu questo timido cercarti tra le lancette, o nei muri della qualunque stanza. Tu sei i baci dati a carta da parati stantia, le malinconie e i giorni di compleanno scordati. Tu sei la razza più bella che io abbia mai voluto conoscere. E questo, anche questo, ancora non sai. Tu sei non qui, e questo mi fa male al male perfetto che tu conosci, lo capisci, lo abbiamo fatto nostro a soli quattro anni.
 
Vorrei poterti dire quello che voglio dare, e non durare niente fino al mare. Insegnarti il cuore che dal suono nostro si stupisce, si allontana e regredisce, diviene pigolio e ruggito, leone ferito o gatto con una zampa sola e senza coda e senza baffi, senza oriente. E poi niente sì, che si calma e finisce col calmarsi, regolarsi al movimento della tua testa nell’incavo della mia, dove poggi il tuo sbandamento e lo scoramento della tua anca, il prepuzio del tuo intento e lo sgomento di tenersi così, non senza tagliarsi i polsi, non senza passarsi lame sulle braccia per ritagliarci una topografia dell’attenzione, per farci un po’ di bene.
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